Il disegno di legge costituzionale che introduce la separazione delle carriere per i magistrati tra requirente e giudicante, lo sdoppiamento del Csm e l’introduzione di un’Alta Corte disciplinare è stato presentato l’estate scorsa dal governo ed è approdato in aula alla Camera per ii passaggi parlamentari richiesti. Se in seconda lettura il provvedimento non otterrà la maggioranza qualificata dei due terzi, potrà essere sottoposto a referendum. Non mancano le critiche al ministro Carlo Nordio per questo disegno di legge, che sostiene la necessità di una differenziazione strutturale nelle competenze e nella carriera di pm e gip. Per dare forza al provvedimento sta circolando una fake news secondo la quale Giovanni Falcone era favorevole alla separazione delle carriere, attribuendogli una posizione in favore delle carriere separate che il magistrato non ebbe. La forzatura evocata per difendere il merito del provvedimento si basa su un passaggio dell’intervista che Giovanni Falcone rilasciò a Mario Pirani di Repubblica il 3 ottobre 1991, a proposito della riforma Vassalli e del nuovo codice di procedura penale. “Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obbiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e Pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il Pm sotto il controllo dell’Esecutivo”. Il magistrato ucciso a Capaci il 23 maggio 1992 disse che “il pm non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non deve essere, come invece è oggi, una specie di paragiudice”, ma quella frase fa parte di un discorso molto più ampio: Falcone era contrario alla separazione delle carriere. Semmai era un sostenitore della cosiddetta separazione delle funzioni o quantomeno della necessità di una specializzazione per l’ufficio del pubblico ministero.
A smontare la tesi che Falcone fosse pro separazione, è, tra gli altri, Armando Spataro, ex procuratore simbolo della lotta al terrorismo, che ha dedicato a questo tema diverse pagine del libro “Loro dicono, noi diciamo” edito da Laterza e scritto insieme a Gustavo Zagrebelsky e Francesco Pallante. Spataro sottolinea che i sostenitori di questa tesi citano in particolare un intervento del 1989: “si tratta di un’interpretazione errata di frasi estrapolate da un testo ben più ampio, Falcone non stava prendendo posizione ma aveva voluto porre sul tappeto il funzionamento della giustizia nell’assetto che il nuovo codice di procedura penale aveva riservato al pm”. Si legge ancora nel libro: “Falcone credeva solo che con l’avvento del nuovo codice di procedura penale e l’abolizione della figura del giudice istruttore, vi fosse un accentuato bisogno di un sapere specialistico e che le conoscenze necessarie a un pm per svolgere efficacemente il suo lavoro non coincidessero con quelle del giudice”. Si deve aggiungere, osserva ancora l’autore, che “in innumerevoli occasioni, peraltro, Falcone aveva spiegato di non condividere la necessità di separare le carriere giudicanti e requirenti all’interno della magistratura”. Oltre tutti questi ragionamenti c’è un esempio pratico: “la più sicura conferma della sua contrarietà alla separazione delle carriere la diede Falcone stesso, chiedendo e ottenendo più volte di passare dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa”. Argomentazione, quest’ultima che riprende anche Marcelle Padovani, giornalista e scrittrice, autrice insieme a Falcone del libro “Cose di Cosa nostra”. “Per Giovanni, il passaggio di funzioni poteva essere un elemento di crescita, non riteneva necessaria una demarcazione così profonda da portare alla separazione delle carriere e soprattutto non ha mai fatto alcuna battaglia su questo”. Sul tema è intervenuto anche il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, il quale ha dichiarato che: “La riforma non è di Giovanni Falcone, per un fatto evidente. Lui è venuto a mancare nel ‘92, la riforma matura in tutt’altro contesto. Credo non sia giusto e non sia di buon gusto tirare in campo il nome di Giovanni Falcone”.
L’ex giudice Alfredo Morvillo, fratello della magistrata Francesca Morvillo, moglie di Falcone, ha ribadito che le affermazioni strumentalizzate sono state “decontestualizzate“. Morvillo ha spiegati che c’era una necessità: i pm non avevano esperienza di coordinamento delle indagini, per questo “avrebbero dovuto avere una preparazione supplementare, al di là delle semplici materie del concorso. D’altra parte se parliamo di separazione delle carriere dovremmo anche ricordare che tipo di carriera ha fatto Giovanni“. Ma “questo è il solito giochetto: usano il nome di Falcone come prova della bontà delle loro tesi”, ha detto l’ex pm. “Eppure – sottolinea – quando il ministro parla di concorso esterno, di intercettazioni o di 41 bis, si guarda bene dal citare Falcone: come mai? Forse perché in realtà tra le posizioni di Nordio e quelle di Giovanni c’è un abisso”. “Per quattro volte: fu pretore, giudice, pm, Procuratore aggiunto e poi magistrato fuori ruolo al ministero. Lo stesso ha fatto Paolo Borsellino“. Eppure i fautori della riforma si fanno scudo con le parole del magistrato ucciso, senza però ricordare “che la separazione delle carriere era contenuta nel Piano di rinascita democratica della P2 di Licio Gelli. Per questo dico a Nordio di lasciar riposare in pace i morti. Vada pure avanti con le sue riforme, anche più inutili di questa, ma la smetta di citare a sproposito il nome di chi non c’è più e non può replicare“. Infine Morvillo ha commentato così il testo di riforma approvato da poco in consiglio dei ministri: “Ritengo che sia gravemente offensivo dipingere i giudici come passacarte delle Procure, influenzabili solo per aver fatto lo stesso concorso del pm. Ma risponde a un’operazione portata avanti negli ultimi anni da quasi tutte le forze politiche: si vuole diffondere sfiducia nei confronti della giustizia. Solo che quando in un Paese viene meno la fiducia nella giustizia, cominciano a essere in pericolo anche le libertà democratiche“.